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Sand Play Therapy

La terapia del gioco della sabbia

 

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Un metodo terapeutico junghiano ideato da Dora Maria Kalff

La terapia del gioco della sabbia (in inglese Sand play therapy= S.P.T.) è un metodo psicoterapeutico che si avvale della concezione junghiana della psiche e della metodica ideata dalla sua allieva Dora Kalff. Essa nasce dall’osservazione della potenzialità terapeutica che il giocare ha per la psiche. In questa linea teorica sulla facoltà della fantasia creativa nella vita mentale dell’uomo e della enorme capacità di attivazione del gioco, viene valutata la S.P.T.. Questa è una metodica di recente applicazione che viene utilizzata sia nella terapia del bambino che dell’adulto.

Lo stesso Jung enfatizza il ruolo creativo del gioco e dell’immaginazione: ” … tutto il lavoro umano trae origine dalla fantasia creativa, dall’immaginazione; come potremmo averne una bassa opinione? Inoltre la fantasia normalmente non si smarrisce; profondamente e intimamente legata com’è alla radice degli istinti umani e animali, ritrova sempre, in modo sorprendente la via. L’attività creatrice dell’immaginazione strappa l’uomo ai vincoli che l’imprigionano al nient’altro che, elevandolo allo stato di colui che gioca. E l’uomo, come dice Shiller, “è totalmente uomo solo là dove gioca”. L’effetto al quale io miro è di produrre uno stato psichico nel quale il paziente cominci a sperimentare con la sua natura uno stato di fluidità, mutamento e divenire, in cui nulla è eternamente fissato e pietrificato senza speranza” Qung, Opere, vol. 16).

Possiamo osservare i bambini in normali situazioni di gioco, per esempio in riva al mare, e come essi si dedicano con particolare divertimento a manipolare la sabbia, elemento particolarmente plasmabile e adatto alla composizione di svariati scenari. Per il bambino il gioco è un bisogno elementare come il nutrirsi e l’essere contenuto da braccia rassicuranti. Alla felicità provata nel contattare la sabbia umida, plasmabile dalla sua piccola mano, o dalla sabbia asciutta che scorre fra le dita, si aggiunge il piacere di costruire scenari veri e propri, all’inizio indifferenziati, poi forme di cibo che viene cucinato fino a diventare castelli, villaggi, una composizione di ambienti diversi ed una vita di personaggi che si muove in essi. Il gioco acquista una valenza simbolica ed organizzativa: il bambino costruisce un suo mondo del quale è creatore e protagonista.

Questa capacità di immergersi nelle immagini psichiche e rivelame potere e significato attraverso il gioco, ha una capacità di integrazione sulla psiche sia nel bambino che nell’adulto che, giocando, può avere accesso a quel “bambino dentro di sé” dimenticato o svalorizzato.

La terapia del Gioco della Sabbia, con la quantità di strumenti accessori, concede al paziente una ricca e differenziata possibilità di realizzazione formale. Con questo metodo convivono sensazioni corporee e la soddisfazione derivata dalla possibilità di esprimersi creativamente.

L’attività che si esplica nella S.P.T. è duplice:

1) uscire temporaneamente dalle usuali limitazioni e controlli dell’io per poter esprimere immagini evocanti dimensioni più profonde della psiche;

2) la consapevolezza del significato di queste ultime aggiunge un altro elemento che risulta terapeutico. Tale comprensione riguarda le dinamiche inconsce che determinano il disagio psichico; la loro risoluzione e trasformazione avviene, secondo la Kalff, per via intuitiva, come verrà approfondito in seguito, e non attraverso interpretazione come nel metodo classico junghiano.

L’alchimia della trasformazione psichica opera, in questo contesto, attraverso il “vivere” le immagini create, la contemplazione dello scenario e soprattutto la mancanza di interpretazione del terapeuta che, se agita, potrebbe risultare intrusiva e provocare la caduta di spontaneità del paziente. Come viene riportato da M. Mengheri: “la terapia con la sabbia ci offre l’opportunità di proiettare all’esterno ciò che accade internamente ed in tal modo mette in atto non soltanto dinamiche endopsichiche fra conscio e inconscio ma anche tra mondo interno e realtà esterna, fra l’astratto ed il concreto” (M. Mengheri, 1991).

Possiamo comprendere, per quello che abbiamo finora riportato che la S.P.T. vada oltre l’uso riduttivo di tipo diagnostico come nei comuni test psicologici, anche se indubbia è la possibilità di trarre elementi diagnostici e prognostici dall’osservazioni di immagini, particolannente nella prima costruzione nella sabbiera.
Cenni teorici: il modello junghiano della psiche

C.G. Jung, approfondisce lo studio degli aspetti inconsci della psiche oltre quello che definisce “inconscio personale” che era già stato trattato esaurientemente dal suo maestro S. Freud. Da cui si distacca definitivamente nel 1916, per avere la possibilità di elaborare una propria psicologia che chiama, per differenziarla dalla Psicoanalisi freudiana, Psicologia Analitica.

Jung, a parte gli alterchi personali che fanno inevitabilmente parte della vita degli uomini, fu veramente il continuatore storico della ricerca freudiana. Egli infatti parte proprio da dove il maestro era giunto, quando aveva iniziato ad occuparsi di “contenuti conturbanti” in relazione a fenomeni psichici non direttamente spiegabili da un modello che comprende solo l’Inconscio personale comprendente le istanze psichiche dell’Io-Es-super Io.

Jung nella sua monumentale opera prova a definire quell’area estremamente profonda e misteriosa dell’animo umano che si esprime attraverso un “linguaggio” simbolico, usando la struttura che è ricorrente nei miti arcaici e nelle religioni. L’argomento di ricerca di Jung si estende in diversi campi oltre quello strettamente psichiatrico e psicologico, quale l’antropologia culturale, la storia delle religioni, l’interpretazione psicologica dei miti e delle favole, coadiuvato dal confronto con le maggiori personalità scientifiche dell’epoca.

Sulla base di queste ricerche Jung si rende conto che si ripropongono spesso simboli comuni a tutta l’umanità. Essi rappresentano cioè una struttura di base della mente pur manifestandosi con modalità diverse in relazione alla diversa tipologia e sviluppo storico dei vari popoli o individui. Queste immagini simboliche ricorrenti vengono definite da Jung “archetipi”, termine con cui nell’antica Grecia venivano definiti i “modelli primigeni”: le strutture di base della psiche.

E’importante sottolineare come tali archetipi non siano direttamente percepibili, ma possano essere esperiti solo attraverso le “immagini archetipiche”.

Per Jung gli archetipi sono organi che strutturano il comportamento umano fisico, psichico, spirituale e sono radicati nella sfera istintuale, dove corpo e psiche si uniscono nell’Unus Mundus originario, potremmo dire in una unità inscindibile psicosomatica.

Questa zona dell’inconscio è considerata da Jung “collettiva”, in quanto comune a tutta la specie umana, in questa area è depositata una sorta di memoria arcaica comune a tutta l’umanità.

I simboli dell’inconscio collettivo hanno un carattere nouminoso termine con cui Jung intende ciò che è ” … un’essenza o energia dinamica non originata da alcun atto arbitrario o volontà…”

(Jung, 1981, vol. 16) esemplificando si potrebbe dire divinità, esse, a volte minacciano di soverchiare la coscienza dell’Io, con rischio di psicosi.

Comunque, se si riesce ad iniziare un confronto dialettico con l’Inconscio, ciò che è pericoloso perché sconosciuto può diventare creativo se ne riconosciamo valore e significato. Attraverso questo confronto con l’inconscio, che assume una dimensione dinamica e trasformativa per la psiche, si procede in quello che viene definito il “processo di Individuazione”. Lungo questo percorso di ricerca interiore, tutt’altro che semplice, faticoso e pieno di pericoli, l’Io si confronta con diverse immagini archetipiche. Alla fine di questo confronto compare una “esperienza limite” che Jung chiama l’esperienza del Sé. Il Sé rappresenta la totalità armoniosa della psiche che comprende il conscio e l’inconscio al quale l’Io diviene subordinato, esecutore materiale della sua volontà.

Anche nei contenitori del Gioco della sabbia l’immagine del Sé compare spesso sotto forma di cerchio contenuto in un quadrato, croce, fiore, perla ed altro, potremmo dire tutto ciò che compare racchiuso e centrale in una struttura “mandalica”.

Gli esempi più artistici di Mandala sono quelli tibetani, ma tali strutture di un centro racchiuso in un posto sacro sono presenti anche nella mistica cristiana, nell’arte sacra egizia, dei nativi americani e possono essere espresse attraverso la danza, come quelle dei Sufi.

E’ molto importante tenere presente che la rappresentazione del Sé non è distinguibile dalla raffigurazione dell’immagine della divinità nelle diverse tradizioni religiose. Jung non si interroga sulla esistenza reale della divinità, considerando questo compito di altre trattazioni che non siano scientifiche, ma soprattutto lasciando il campo alla esperienza diretta di ogni individuo.

Per Jung è il Sé che ha reale potere di guarigione Il rimedio con cui si possono eliminare le dissociazioni nevrotiche riconducendo alla coscienza quello spirito e quell’atteggiamento che sempre furono sentiti dall’umanità come liberatori e risanatori (Jung, 1981 vol. 11).


Cenni teorici nella terapia del Gioco della Sabbia

Per la Kalff, allieva innovatrice di Jung, in accordo alla Psicologia Analitica, il processo di sviluppo psichico dalla nascita in poi è regolato dal Sé, inteso come principio unificante e regolatore della psiche umana, cosi descritto da Jung: Il Sé non è soltanto il centro ma anche l’intero perimetro che abbraccia coscienza e inconscio insieme; è il centro di questa totalità come l’Io è il centro della mente cosciente” (Jung, opere, vol.12).

L’uomo nasce immerso nella totalità di cui però non è consapevole e che viene inizialmente proiettata, come scrive Neumann (Cfr. E. Neumann “Storia dell’origine della Coscienza, 1978) nel Sé della madre che, se è in grado di accogliere e soddisfare le richieste affettive del figlio, crea una profonda unità nella relazione e consente cosi al neonato di provare sensazioni di sicurezza e amore.

Verso la fine del primo anno di vita la proiezione del Sé del bambino viene parzialmente ritirata dalla figura materna e la relazione madre figlio divene meno fusionale: inizia una differenziazione dalla madre e il bambino può separarsi e sperimentare un maggior senso di sicurezza. Nel processo che si attiva fra il primo e il secondo anno di vita egli sarà in grado di introiettare il proprio Sé che si stabilisce cosi saldamente nell’inconscio infantile. In quest’epoca si possono notare ricorrenti disegni o verbalizzazioni che riguardano figure concentriche e quadrati definite da Jung: “Immagini mandaliche”.

Il cerchio è la rappresentazione, in tutte le culture, della perfezione, del cielo, della divinità, dove il quadrato simbolizza invece una fase precedente: è una “ambiente sacro” in cui può avvenire l’esperienza della totalità, in cui si sta preparando il completamento. Per la Kalff. ” … il cerchio non è solo una figura geometrica, ma anche un simbolo che fa cadere luce su qualcosa che vive invisibile nell’uomo. I simboli sono immagini interne cariche d’energia, disposizioni dell’essere umano, che, quando si fanno visibili, influenzano di nuovo lo sviluppo dell’uomo. Simboli di contenuto religioso parlano quindi di un ordine interno, spirituale, che è causa di un rapporto con la divinità. Questo dà all’uomo la sicurezza che gli rende possibile, fra l’altro, l’evoluzione della sua personalità (Kalff, 1966).

Il momento in cui nel bambino avviene la manifestazione del Sé è il più importante della sua vita, anche per la relazione con gli altri; solo a partire da questa esperienza egli potrà affrontare il mondo con autenticità ed equilibrio. Al contrario, vi sarà uno sviluppo inadeguato dell’ Io

  1. a) Quando il bambino non avrà modo di sperimentare sufficiente accoglimento da parte dei genitori, soprattutto dalla madre e dall’ambiente.
  2. b) Quando l’esperienza del Sé non viene apprezzata, o peggio ostacolato.
  3. c) Quando cause traumatiche esterne ne abbiano impedito l’esperienza come in caso di guerra o abusi.

La terapia del gioco della sabbia e il pensiero orientale

Il lavoro della Kalff è costantemente impregnato dal pensiero orientale, sia per la tipologia introversa dell’ideatríce del metodo, sia per l’atteggiamento terapeutico.

Nel gioco della sabbia è enfatizzato l’atteggiamento di contemplazione intuitivo delle immagini che scaturiscono dal vuoto della sabbiera che è sincronico al vuoto e al silenzio interiore del paziente e del terapeuta. Questa dinamica è simile alle tecniche meditatíve presenti nel Buddhismo tibetano, dove si visualízzano immagini dinamiche che scaturiscono dal vuoto mentale (in sanscrito Sunyata). Anche la Compassione cosi enfatizzata nel Buddhismo tibetano di scuola Mahayana è un atteggiamento mentale che viene riconosciuto come essenziale nel terapeuta, questo tipo di sentimento, nel contesto buddhista, viene indicato come la insopportabilità per la sofferenza umana e la assunzione di responsabilità a migliorare la propria mente per essere di maggior beneficio a tutti gli esseri senzienti. Questo tipo di sentimento è privo di attaccamento narcisistico al proprio ego che è percepito come insostanziale e privo di autoesistenza.

Anche l’atteggiamento terapeutico di spazio “libero e protetto” nel setting analitico richiama alla mente le raffigurazioni del Mandala tibetano dove esternamente il cerchio è protetto da barriere di fiamme che impediscono alle interferenze alla meditazione di entrare nel luogo sacro, raffigurato con il palazzo della divinità dove vi è pace e libertà.
Strumenti nella terapia del gioco della sabbia

All’interno della stanza della terapia vi sono scaffali contenenti numerosi oggetti in miniatura che rappresentano oggetti della vita quotidiana (personaggi, animali, edifici, alberi ecc.), assieme ad immagini del sacro (appartenenti al maggior numero possibile di sentieri spirituali), e figure fantastiche (gnomi, fate, streghe, ecc.).

E’ importante che la collezione, a differenza dalla terapia del gioco ideata da Melanie Klein, sia ricca e varia, per dare al paziente la possibilità di una vasta gamma di rappresentazioni. Sono presenti inoltre due contenitori di sabbia con fondo celeste, uno contenente sabbia bagnata, l’altra asciutta. Le dimensioni della sabbiera sono fissate in cm. 57×72 e sono tali da consentire all’osservatore di percepire l’intero scenario in un solo colpo d’occhio, senza dover ruotare la testa, in tal senso sono proporzionati al corpo umano.

Con la S.P.T. è possibile fare esperienza dei quattro elementi che si trovano in natura, con cui è cosi’ difficile entrare in relazione per l’uomo urbanizzato:

  1. a) l’acqua, simbolizzata dal fondo azzurro della sabbiera o realmente versata nel contenitore;
  2. b) il fuoco, che è possibile accendere sulla sabbia con una candela o un piccolo falò;
  3. c) l’aria, per la presenza di elementi che la ricordano come mulini a vento o barche a vela.
  4. d) la terra, rappresentata dalla sabbia.

Cosi’ gli elementi interni vengono rappresentati nello scenario della sabbiera.
Il Setting nella terapia del gioco della sabbia

Con questo termine, in linguaggio analitico si intende l’insieme delle condizioni, orari, durata delle sedute, caratteristiche della stanza di terapia, il materiale messo a disposizione e la sua utilizzazione. A tutto ciò va associato l’atteggiamento mentale dell’analista.

Jung definisce l’analisi un “procedimento dialettico” in cui i due partecipanti sono ugualmente coinvolti in una interazione emotiva a doppio senso, evidenziando cosi la necessità dell’analista di imparare dal paziente e di adattarsi alla sua realtà psichica (Samuels, Shorter, Plant, 1987). Nella relazione analitica le parti in gioco sono il conscio e l’inconscio del paziente e dell’analista per cui è di cruciale importanza la qualità del lavoro di formazione del terapeuta. Tale formazione permetterà all’analista di essere consapevole delle proprie emozioni inconsce attivizzate dalla relazione con il paziente, tale materiale dovrà essere riproposto al paziente disintossicato e dotato di senso.

Nella S.T.P. le valenze transferali vengono in gran parte assorbite nella sabbiera, il transfert verso la persona dell’analista risulta cosi meno intenso, favorendo una diminuzione di angoscia nel paziente.

Le resistenze trovano una loro collocazione e canalizzazione nella sabbiera deve vengono personificate nello scenario.

Interessante la classificazione del transfert nella S.P.T. esposta da E Montecchi (Montecchi, 1993) in:

  1. a) transfert nella sabbiera: Quando la relazione con il terapeuta viene simbolizzata dalle immagini e giochi eseguiti con la sabbia. E’ il modo più interessante che il transfert ha per manifestarsi;
  2. b) transfert con la sabbiera: fuga, difficoltà di contatto con la sabbia, ambivalenza, vissuto persecutorio, trasgressione all’impegno di giocare all’intemo del vassoio, o al contrario buona relazione con la sabbiera;
  3. c) transfert attraverso la sabbiera: l’uso della sabbiera diventa un tramite di comunicazione di tematiche transferali con l’analista. In questo caso l’elemento terapeutico è svincolato dal quadro della sabbiera, ma la modalità dell’uso dei materiale e della sabbiera rappresentano il metalinguaggio attraverso cui il paziente cercherà di definire la relazione con la persona del terapeuta.

Nella S.P.T. il terapeuta deve essere in grado di creare un’atmosfera di libertà e protezione, tale atteggiamento mentale viene definito da A. Navone come: ” … lo spazio dell’accoglimento, del silenzio e della differenziazione”. (Navone, 1989)

Solo se il terapeuta avrà la capacità di realizzare uno spazio vuoto nella propria mente, sarà in grado di comunicarlo al paziente.

Per accoglimento si intende, in questo contesto, la capacità dell’analista di essere aperto a ciò che il paziente porta in terapia: qualsiasi scena rappresentata nella sabbiera ed emozione evocata deve essere accolta ed accettata, con una astensione di formulazione di giudizio o di valore estetico.

Il “silenzio” del terapeuta richiama alla mente l’atteggiamento meditativo buddhista di vuoto mentale, che viene descritto come un tipo di mente avente quattro caratteristiche: chiarezza, mancanza di immagini, mancanza di autoesistenza, beatitudine. Questa mente è la mente primordiale che è presente nell’essere da tempo senza inizio. La Kalff che aveva studiato sotto la guida di eminenti maestri tibetani era al corrente della teoria del “Vuoto mentale” (in sanscrito Sunyata) e anche se implicitamente si riferiva ad esso quando parlava di “mente silenziosa”. E’ dal vuoto che sorgono le immagini, dal vuoto della sabbiera e da quello della mente. In questa visione il vuoto si differenzia dalle sensazioni di “vuoto” nelle angosce depressive, dove l’esperienza è di un “nulla” difensivo. Nella S.P.T. il vuoto è un stato iniziale che prelude l’emergere dell’iminagine, quindi ha una valenza di creatività. Per “silenzio” si intende anche l’astensione dell’analista ad interpretare le scene della sabbiera: nella S.P.T. secondo Dora Kalff l’analista non deve interpretare le scene costruite dal paziente, tale commento impedirà la spontaneità del gioco con il pericolo di bloccare l’attualizzazione del fattore autocurativo della psiche. L’interpretazione viene rimandata alla fine del processo quando si potrà avere la possibilità di rivedere insieme le diapositive precedentemente riprese.

Per “differenziazione” si intende la possibilità che dal vuoto indifferenziato della sabbiera e della mente del paziente e dell’analista possa emergere la complessualità della psiche del paziente attivata dalla relazione analitica.

L’analista deve inoltre osservare e interpretare silenziosamente l’utilizzazione del paziente dello spazio, del tempo e le modalità costruttive, i messaggi corporei, il movimento caotico o lento, l’intrusività o il rispetto del proprio spazio corporeo.

Nella sabbiera si esamineranno le dislocazioni degli oggetti ed il loro significato simbolico.

E’ importante tenere presente la utilizzazione del tempo della seduta, che generalmente è di quarantacinque minuti: vanno considerati i periodi dedicati al gioco ed alla verbalizzazione, i ritmi, le pause, la gestione del tempo che può essere percepito come eccessivamente lungo, o al contrario, insufficiente. L’osservazione delle modalità costruttive e l’interpretazione simbolica, ricordiamo, silenziosa, forniscono, insieme agli altri parametri fondamentali chiavi diagnostiche e indicazione terapetitiche.

Per concludere mi sembra interessante proporre al lettore una sequenza di immagini di un processo terapeutico svolto con una paziente affetta da una sintomatologia psicosomatica che le procurava la quasi totale caduta di capelli in alcuni periodi dell’anno. Le immagini sono scelte da un numero più vasto, il commento, inoltre, sarà estremamente ridotto, per dare la possibilità al lettore di scoprime da solo un significato più ampio. Pur ricordando che, in accordo alla visione junghiana, l’immagine non è mai, nella sua interezza, riducibile a parole e concetti.

 

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Meditazione buddhista, vuoto della mente, vuoto della sabbiera

Nella terapia del gioco della sabbia, secondo la fondatrice di tale metodica Dora Maria Kalff (1974)[1], lo psicoterapeuta deve essere capace di creare per il paziente un “ambiente libero e protetto” che dia la possibilità di rappresentazione di costruzioni all’interno del contenitore, più spontaneamente possibile, permettendo così di prendere consapevolezza delle proprie immagini interiori, inconsce, rappresentate nella sabbiera.

E’ mia intenzione soffermarmi sull’atteggiamento mentale del terapeuta, prendendo come modello esplicativo il sentiero buddhista per la realizzazione del “vuoto mentale” (in sanscrito sunya-ta termine che verrà esplicitato più avanti).

Il concetto di “ambiente” indica, in questo contesto, sia dimensioni esterne alla coppia analitica (vedi la strutturazione del setting), sia un particolare atteggiamento mentale.

La strutturazione del setting riguarda la formulazione e adesione ad accordi iniziali stabiliti. Queste regole riguardano gli appuntainenti, la durata delle sedute e il loro compenso. Tutto questo va inteso non come una rigida strutturazione super-egoica, ma come l’organizzazione di una dimensione di limite che verrà a definire l’atmosfera in cui si svolgerà il “gioco della sabbia”.

Dora Kalff intende per “spazio terapeutico” l’insieme della stanza del terapeuta e in particolare gli scaffali con le miniature e il contenitore con dentro la sabbia. La sabbiera, di colore azzurro, deve avere dimensioni tali da poter essere osservata con un solo colpo d’occhio, senza dover ruotare il viso. Durante la Terapia del Gioco della Sabbia (T.G.S.) il paziente, sia adulto che bambino, può muoversi liberamente nella stanza e costruire ambienti all’interno del contenitore della sabbia, applicandosi nella strutturazione del gioco in uno spazio tridimensionale. L’esperienza dello “spazio libero e protetto” circoscrive una dimensione sacralizzata dove potenti forze trasformative possono guidare il processo di guarigione.

La dimensione archetipica dello spazio sacro richiama alla mente i “Mandala” tibetani (Tallarico, 1995), che sono serviti da supporto immaginativo attualizzati, in profondi stati meditativi, da numerose generazioni di yogi buddhisti fino ai nostri giorni.

A questo proposito ricordiamo che la Kalff, fin dagli studi liceali, fu attratta dall’oriente, in particolare dal buddhismo Zen e da quello tibetano, tanto da ospitare un Lama, profugo del Tibet, allora occupato dai cinesi. Il Lama fu accolto per diversi anni in una dependance della sua splendida casa zurighese che diventò più tardi un centro di meditazione buddhista tutt’ora esistente. Dora Kalff ebbe frequenti relazioni e scambi di conoscenza con i più eminenti rappresentanti del Buddhismo tibetano, fra cui lo stesso Dalai Lama, e da loro fu incoraggiata a studiare e praticare approfonditamente il buddhismo per comprenderne le sue valenze terapetitiche.

Ricordiamo che Mandala in tibetano viene tradotto con Kil Kor (cerchio); questa figura indica un’ambientazione, ma soprattutto una dimensione mentale, che in tutte le tradizioni religiose configura un luogo sacro.

Come viene descritto nei testi del Tantra buddhista [2], il praticante medita con più concentrazione che può sul Mandala. Esso si presenta all’occhio della immaginazione del meditante come una sfera più vasta della Terra, protetta da una serie di barriere di fuoco che impedisce gli ostacoli alla concentrazione di turbare la pace del luogo sacro.

All’interno del mandala vi sono degli splendidi giardini, fontane, corsi d’acqua, animali domestici che rendono piacevole e rilassante l’atmosfera. Al centro del Mandala vi è il palazzo in cui risiede la divinità, che può essere intesa come un’immagine archetipica del Sé. Questo palazzo viene visualizzato dell’entità della luce dell’arcobaleno, e all’interno di esso è lo spazio più sacro portatore di saggezza, compassione e forza vitale. Si accede per quattro porte situate ognuna nei quattro punti cardinali. Al centro della sala principale vi è la divinità. Possiamo osservare come i vari processi iniziatici rituali sono un accompagnamento del Maestro verso il centro della dimora celestiale e la relazione con la divinità.

La fondatrice della T.G.S. riprese questa intuizione di delimitazione e protezione di uno spazio mentale intimo e creativo dal buddhismo tibetano, grazie anche all’interessamento dello stesso Carl Gustav Jung. E inoltre interessante notare che, durante i processi iniziatici nella grande iniziazione di Kalachakra, la base per la visualizzazione è un mandala, costruito con diverse sabbie colorate [3]. La Kalff propose quindi, con la sua metodica, la costruzione di un “Mandala individuale” che permettesse, a differenza del Mandala nel buddhismo tibetano (le cui immagini sono codificate dalla tradizione), la possibilità di costruire un gioco che propone immagini scelte dal paziente e quindi significative per la sua storia personale.

Viene usata la sabbia perché è l’elemento in natura più modellabile tridimensionalmente. Nella T.G.S. il paziente costruisce un suo mondo all’interno del contenitore, in cui si rappresenta una storia, o per meglio dire una mitobiografia.

Quando si parla di “libero”, riferito allo spazio, si intende la possibilità che il paziente concede a se stesso di far emergere, da dimensioni profonde della psiche, rappresentazioni mentali che possono configurarsi nello spazio privilegiato della sabbiera. Perché al paziente sia data l’opportunità di fare questa esperienza è necessario che i suddetti fattori si integrino armonicamente.

Diversi stimoli possono agevolare il paziente nel proiettare le proprie immagini e nel ricostruirle all’interno del contenitore: l’assenza di forma presente nella sabbia, la sua peculiare caratteristica di poter essere modellata e “riempita” (o meno) di personaggi, elementi naturali e dimore, nonché una vasta gamma di scelta di oggetti. La sabbia è terra, quindi recettiva, e la sua accoglienza è amplificata dalla sua malleabilità. Si può dire che l’elemento sabbia è vuoto di forma in sé, ma ha la predisposizione a potersi configurare in tutte le forme possibili; la prima possibilità ad un libertà espressiva è data dal materiale stesso usato. Altro stimolo creativo viene dato anche dall’ambiguità percettiva che il paziente sente nel contemplare la sabbia. Similmente possiamo confrontare il vuoto di forma nella sabbiera a quello rappresentato dal test proiettivo delle macchie di Rorschach che induce una iniziale frustrazione percettiva e quindi cognitiva nella mente del paziente, che tende a ricercare una forma definita. Quest’ambiguità percettiva stimola la naturale predisposizione della psiche a produrre immagini mentali inconsce che vengono ricostruite nella sabbiera. In altre parole, la mancanza di forma nella sabbiera stimola la mente a cercare una sua propria espressività che il paziente potrà cogliere e riportare. Perché questo avvenga è necessaria la capacità del paziente di lasciare andare il controllo rigido dell’Io che mantiene attive le resistenze alla cura, oltre alla capacità di instaurare una relazione transferale con gli oggetti, la sabbiera e il terapeuta.

In questo tipo di terapia, similmente a quelle di tipo analitico tradizionale, viene enfatizzata la dimensione mentale del silenzio, dell’ascolto di sé con una particolare attenzione alla percezione delle immagini interiori. Nella costruzione dei giochi, l’ispirazione proviene dalle regioni inconsce della psiche. La condizione iniziale è l’ascolto e la recettività della mente, o in altri termini il “vuoto mentale”. Tale dimensione mentale può essere aiutata ad emergere solo se sincronicamente il terapeuta ha la capacità di calarsi in questa attitudine mentale.

In questo contesto per Vuoto si intende l’attitudine ad accogliere qualsiasi rappresentazione del paziente nella sabbiera senza formulare verbalmente, e mentalmente, giudizi o aspettative. Se il terapeuta ha la mente distratta dal “qui ed ora” perché piena di altri pensieri o sentimenti, il processo, in qualche modo, perde di efficacia e spontaneità. Per questo motivo Dora Kalff considerava la pratica meditativa di contemplazione (come possiamo ritrovare nel Buddhismo) un’apprezzata qualificazione per accedere al training professionale. Queste pratiche, assieme ad altre terapie psicofisiche, come ad esempio lo Shiatzu e il Tai-chi, danno la possibilità di una maggiore concentrazione e un lasciarsi andare consapevolmente.

Il terapeuta che integra alla propria formazione, arti e discipline orientali, come anche un addestramento contemplativo religioso di tipo occidentale, è molto avvantaggiato nella pratica clinica con questa metodologia.
Il Vuoto mentale

La concezione del Vuoto mentale non è solamente un’esclusiva del Buddhismo Mahayana. Autorevoli studiosi in campo psicologico si sono occupati di vuoto mentale sia con un approccio di tipo clinico che sperimentale; in particolare scrive William James (cit. in Goleman, 1982) nel saggio “Varietà dell’esperienza religiosa” a proposito degli stati di coscienza correlati con esperienze mistiche: “… Nessuna concezione dell’Universo che manchi di prendere in considerazione questi stati di coscienza può considerarsi completa. La questione è come considerarli, dato che sono così discontinui rispetto agli stati di coscienza ordinaria. Possono determinare atteggiamenti anche se non possono fornire formule e possono aprire nuove regioni, anche se non riescono a fornire una mappa. In ogni modo impediscono che chiudiamo prematuramente i nostri conti con la realtà”.

Un originale impulso alla ricerca in tal senso fu data da De Santis, titolare della cattedra di Psicologia sperimentale dell’Università di Roma, negli anni Venti [4]. In contrasto con la psicologia sperimentale e la psichiatria classica, che confinavano le esperienze dei mistici nella psicopatologia, in un esperimento di tipo introspettivo riportato nell’opera “Trattato di psicologia sperimentale”, cercò di “ricreare in laboratorio” quello stato di “Vuoto mentale” che a suo parere era alla base delle esperienze estatiche. Possiamo dire che il suo lavoro è una ricerca sul vuoto in una dimensione sperimentale decontestualizzata da una peculiare cultura o credenza religiosa. Altre ricerche in questa direzione sono attualmente portate avanti da Venturini della cattedra di Psicologia fisiologica dell’Università di Roma, in particolare sui correlati fisiologici di peculiari stati meditativi, come quelli sul Vuoto mentale.

Il Vuoto mentale, in questo contesto, è interessante per una prospettiva di allargamento della soglia della consapevolezza, ma è anche una esperienza di pace mentale e contatto con dimensioni energetiche trasformative. De Santis parla di “coscienza semplice” o “sostrato di coscienza” connotata di qualità come la calma, l’assenza di conflitti fino ad una “assenza dell’Io”, che andrebbe meglio definita, ma che potremmo esplicare come assenza di preoccupazioni e limitazioni concettuali.

Il Buddhismo nell’ambito di tutte le visioni tradizionali, è quella che fa più esplicito riferimento al vuoto. Nella tradizione “Theravada” (dal sanscrito Thera = anziani, antichi, quindi la via degli anziani, detta così per una loro maggiore aderenza ai testi antichi oralmente enunciati dal Buddha storico) si parla di vuoto di sé. La consapevolezza del vuoto del Sé viene maggiormente definita nel Buddhismo Mahayana ed in particolare sia nello Zen che nelle scuole del Buddhismo Tantrico. In questi sistemi filosofici l’enfasi è posta sullo studio e la sperimentazione della Vacuità (in sanscrito Sunya-Ta) e sulle sofisticate mappe che definiscono stati ordinari di coscienza, rendendo la loro osservazione più puntuale, assieme alla definizione di stati “alterati” ed alla esemplificazione delle diverse metodologie per la loro realizzazione.

Nel Buddhismo tantrico di tradizione tibetana, lignaggio che si pone come continuità di quello di derivazione indiana, l’approccio è più complesso, attento com’è all’immaginario dell’uomo, al suo mondo eidetico. Tale varietà di forme rappresentate nel pantheon buddhista non deve trarre in inganno. Il Buddhismo tibetano, lungi dall’essere un politeismo, usa le diverse forme delle “divinità”, e le loro immagini simboliche, come manifestazione delle qualità della mente illuminata: l’unione di vacuità e compassione. La differenza fra realizzazione mentale e la sua manifestazione richiama alla mente la differenza che Jung notava fra “archetipo in sé”: schema mentale di comportamento; e “immagine archetipica”. L’archetipo in sé, non direttamente percepibile, lo diventa nel passaggio alla sua rappresentazione simbolica, nell’immagine archetipica culturalmente contestualizzata e quindi consapevolizzabile.
Il Vuoto mentale nel Tantra Buddhista

Nel “Canto di Mahamudra di Tilopa” leggiamo [5]:

“l Vuoto non ha bisogno di supporto.
Mahamudra non poggia su nulla.
Senza compiere alcuno sforzo,
restando sciolti e naturali,
è possibile spezzare il giogo
e ottenere la liberazione”.

Per commentare questa strofa del canto di Tilopa mi sembra opportuno riportare l’esperienza di uno dei più eminenti meditatori contemporanei, Lama Thubten Yeshe [6]:

“… Appena diventiamo più profondamente assorbiti nell’esperienza della spaziosità, l’ordinaria concreta apparenza che normalmente affolla la mente comincia a dissolversi. Come nuvole estive spariscono nella chiara luce estesa del cielo, le nostre visioni dualistiche cessano e noi restiamo con nient’altro che lo spazio chiaro e vuoto della non dualità. In questo spazio mentale vuoto da tutte le concrete discriminazioni di questo o quello, la nostra mente si sente calma e senza confini, libera da limitazioni. Senza affermare niente, accettando tutto…”.

Naturalmente, la realizzazione di questa attitudine mentale necessita studio e applicazione costante per un lungo periodo, e fa parte dell’addestramento meditativo buddhista.

Secondo il Buddhismo a causa della percezione erronea del nostro Io, imputiamo etichette di piacere o sofferenza ai fenomeni e reputiamo queste esperienze permanenti e prive di cause. Quanto scritto crea un’immagine troppo concreta di noi stessi e della realtà che ci circonda. Secondo il sentiero buddhista, un efficace antidoto a questa eccessiva credenza alla nostra percezione erronea (causa di sofferenza) è la meditazione sulla natura chiara della mente. Questa pratica permette di realizzare la comprensione intuitiva di come i nostri pensieri e dinamiche mentali, sia piacevoli che spiacevoli, abbiano la stessa caratteristica di essere vuoti di autoesistenza poiché, per la logica buddhista, tutto esiste in interdipendenza. In altri termini durante la sessione meditativa la nostra identificazione cambia, il soggetto si identifica con il vuoto spazio interiore da cui provengono pensieri ed emozioni piuttosto che con quest’ultimi. Lo spazio è il contenitore mentale; i pensieri, le emozioni, le sensazioni e così via, divengono il contenuto. Contenuto e contenitore sono della medesima caratteristica del “sorgere interdipendentemente”. Il cartesiano “cogito ergo sum” nella logica buddhista diventa: “Io non sono i miei pensieri ed emozioni, ma li percepisco in una relazione soggetto percepiente ed oggetto percepito, ma la mia vera natura è il Vuoto che è creativo poiché da esso tutto ha origine”.

Il fine di questa meditazione, come del resto di tutto il sentiero Buddhista del Grande veicolo, è la realizzazione della Illuminazione. Questa avviene nell’unificazione della mente della Compassione (il desiderio che tutti gli essere senzienti siano liberi dalla sofferenza), e della Saggezza che realizza la natura di tutti i fenomeni, ossia il Vuoto di autoesistenza. Questo causa la completa cessazione delle illusioni che si frappongono fra noi e la realtà e quindi di tutti gli ostacoli all’onniscienza e la realizzazione di tutte le qualità positive latenti nella mente di ciascun essere. Tutto lo sforzo deve essere motivato da un autentico desiderio di divenire un reale beneficio per tutti gli esseri senzienti.
La pratica effettiva

Concludo presentando un suggerimento di pratica meditativa presentata da Lama Yesce (1990) durante un ritiro di meditazione a cui ho avuto, nell’ormai lontano 1983, la fortuna di partecipare.

« … chiudete gli occhi, non pensate “sto meditando”, solo chiudete gli occhi e siate consapevoli di qualsiasi visione vi si presenti, semplicemente consapevoli. Abbandonate le interpretazioni di buono o cattivo, la vostra mente è come una luce e una luce non pensa “Mi piace questo, mi piace quello” è solo una luce. Qualsiasi cosa appare alla vostra coscienza, qualsiasi esperienza, siatene semplicemente consapevoli, questo è tutto.

In questo momento, ogni esperienza, ogni colore, ogni apparenza vi si presenti, siatene solo consapevoli, coscienti. Se appare un’energia nera, quest’energia nera è chiara e pura: se è un’energia bianca, semplicemente percepite lo stato di chiarezza e luminosità.

Siate coscienti di tutto quello che succede. Non interpretate. In particolare, se nulla appare, siate convinti che quella è la verità, e se nulla scompare, quello è lo zero, la verità, la realtà.

Non cercate di attaccarvi a qualcosa o di respingere alcunché siate solo intensamente consapevoli.

La vostra totalità ha la caratteristica dello spazio, della non dualità. Questa non dualità è il vostro carattere e la vostra energia si muove nello spazio di non-dualità. L’energia dell’universo penetra il vostro intero corpo e l’energia del vostro corpo si riassorbe nell’energia dell’universo.

Tutte le vostre idee egoistiche, individualistiche, svaniscono, tutte le relazioni interdipendenti scompaiono. Cercate di realizzare questa esperienza » (Lama Yesce, 1990, pp. 165-6).
NOTE

1) Dora Maria Kalff nata nel 1904 e recentemente scomparsa, è la fondatrice della “Terapia del gioco della sabbia”. Allieva di C. G. Jung e della moglie Emma, ha vissuto e praticato a Zollikon, sul lago di Zurigo e svolto seminari di formazione in diverse parti del mondo fra cui Stati Uniti e Giappone.

2) I Tantra sono scritture composte in India a partire dal VI secolo d.C. Ne esistono di due tipi: induiste e buddhiste. Entrambe racchiudono sistemi di meditazione con uso di rituali, di alto potere simbolico-trasformativo, il cui significato è tramandato da maestro a discepolo (Humphreys, 1981).

3) Splendide riproduzioni fotografiche del Mandala di sabbia di Kalachakra si trovano nel libro a cura del Dalai Lama (1996).

4) Sante de Santis, neuropsichiatra, nacque a Firenze nel 1862. Nel 1919 fu nominato direttore della Clinica Psichiatrica di Roma e nel 1929 della Clinica Neuro-psichiatrica. Nel 1906 fondò in Roma l’Istítuto di Psicologìa Sperimentale. E’ il creatore, in Italia, della neuropsichiatria infantile, come pur degli asili scuola, nel 1899, per fanciulli con deficit psichici.

5) Tilopa, grande maestro tantrico indiano, maestro del famoso Naropa fondatore del sistema detto: ‘I sei yoga di Naropa”.

6) Lama Thubten Yesce nacque nel 1935 in Tibet. All’età di sei anni entrò nell’Università monastica di Sera vicino Lhasa, capitale del Tibet, dove studiò filosofia e meditazione fino al 1959, quando, insieme a miglìaìa dì tibetani, fu costretto all’esilio a causa dell’invasione cinese. Nel 1971 si trasferi dal campo profughi in India presso Kathmandù, in Nepal, dove insieme al suo discepolo, Lama Zopa, comincia ad insegnare regolarmente filosofia buddhista e pratica meditativa. Nel 1975 Lama Yesce crea la Fondazione per la Preservazione della Tradizione Mahayana che conta ormai un centinaio di centri in tutto il mondo. Muore a Los Angeles.